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Civiltà (e responsabilità) della poesia

 

 

La posta in gioco è quella del comportamento civile . . .

verso il sapore interiore delle cose.

G. Steiner, Vere presenze p. 145)

 

 

 

(La riflessione che segue chiude il volume Civiltà della poesia, puntoacapo 2008)

 

 

 

 

 

 

 

         Ecco la domanda iniziale: il poeta possiede delle competenze utili o comunque utilizzabili dalla società? Competenze che possano renderlo utile nel parlare di civiltà, e avverso a forme di potere repressivo? Che senso hanno insomma gli aggettivi “civile” (e “politico”, “impegnato”, “sociale”) se applicati al gesto (sempre eroico perché intimamente simbolico) di fare poesia? Aggiungerei anzi un aggettivo di eccezionale pregnanza: “corale”, cioè che fa comunità. La dimensione civile del fare poesia è insita nel suo stesso statuto ontologico, direi nella sua stessa essenza: ogni poeta sa che le energie con cui scrive una poesia sono le stesse che stanno alla base di un’epoca e una civiltà; sa che scrive «per un popolo che manca», come dice Deleuze, e scrive proprio per creare quel popolo. Il costruttore edifica perché qualcuno abiti le sue invenzioni, le attraversi; così il poeta scrive perché i suoi versi siano vivi nel presente come nel futuro, letti, discussi – perché insomma qualcuno li usi.

 

Pensiamo ai poeti che parlarono dei diritti civili, o in qualche modo dovettero subire il potere: uccisi, esiliati, torturati, internati: solo nel Novecento penso a Achmatova, Mandel’stam, Benn, Cvetaeva, Hernandez, Jacob, Lorca, Pasternak, Ritsos, per restare in Europa. Ma sarebbe anche possibile allineare altrettante immagini di poeti che prosperarono, o almeno convissero con forme di potere per nulla civile. Perché il potere, è evidente, tende a inglobare e controllare ogni forma di espressione, e lo fa tanto nelle dittature quanto nelle democrazie. Il rovescio della medaglia, comunque, è una relativa libertà che ha come controparte l’assoluta emarginazione. Sgomberiamo il campo da tanta mitologia: il poeta, quando subisce il potere, lo subisce spesso in quanto uomo difficilmente adeguabile e inseribile nei sempre più rigidi schemi sociali, piuttosto che per ciò che fa, ciò che dice.

Dire che il poeta è contro il potere è una banalizzazione quanto l’inverso. È vero che la poesia può essere usata contro il potere, e che essa è, di per sé, una forza eversiva indipendentemente dai temi, ma il rapporto fra poesia e potere, o diciamo anche fra poesia e civiltà (che è civiltà di diritti) si gioca su un altro piano rispetto ai significati e ai temi, e che corrisponde all’essenza della poesia stessa. La prima banalizzazione che si rischia è infatti considerare come essenza del fare letterario non aspetto poietico e gestuale, bensì quello tematico: «una poesia che parla di...» Ma una brutta poesia che accusa l’ingiustizia è un’ingiustizia, e al contrario una prassi artistica anche umanamente fragile ma rigorosa è un baluardo contro la stupidità e l’ingiustizia. Non voglio intendere, con questo, che i temi non hanno importanza: lasciando da parte le considerazioni per cui l’oggetto e il tema della poesia è sempre e solo il linguaggio, che ci porterebbero fuori strada, credo che ogni epoca debba chiedersi di cosa parlare, e come - quale è cioè la lunghezza d’onda su cui sintonizzarsi, quali sono le condizioni di forma e contenuto che permettono l’esistenza in vita della poesia - che non sono immutabili e che mettono in gioco, ne sono convinto, le doti più alte di un poeta vero: tanta supposta poesia «da concorso» cade proprio perché presume di essere universale ed è solo tristemente in ritardo di un secolo.

 

C’è una frase straordinaria di Steiner: “Sono il poeta, il compositore, il pittore, sono il pensatore religioso e il metafisico, quando danno ai loro riscontri la persuasività della forma, a insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione.” (Vere presenze, 137). In quell’accenno alla “persuasività della forma”, che non è solo l’applicazione della persuasione retorica, c’è il nucleo di tutto il discorso: con quelle parole Steiner intende “riuscita artistica”. Si può anche chiamare “responsabilità”, con parola di forte ascendenza yeatsiana: quella scelta che fa uscire dal cunicolo della scrittura (personale), alla dimensione pubblica – e allora il problema non sarà più quello di scrivere una bella poesia, con versi musicali, corretti, immagini fascinose, concetti arguti, ma quello di parlare al proprio tempo e, attraverso questo, alla Storia. Come non vedere che l’uso del linguaggio è un problema etico, che troppe parole nascondono menzogne o (riprendendo Pound) incompetenza? La ricerca della parola esatta non è un’oziosa perdita di tempo, ma il fondo dell’arte. Il fatto che chi ne fece un programma assoluto finisse poi abbracciare la mostruosità nazifascista fa parte dell’insufficienza umana e non della poesia.

Pensiamo a Rilke, tutto preso da un ideale assoluto di arte, tanto da vagare decenni alla ricerca di un nido in cui deporre le uova dell’immortalità che portava in sé - I sonetti a Orfeo e le Elegie Duinesi. Non vale lo stesso per Kafka? Quali autori sono più eterni e al contempo più gettati nel Novecento di loro; quali sono armi più utili dell’umano contro i mostri, e magari senza avere scritto contro l’ingiustizia? Come si vede, il problema è più ampio dei semplici temi. Vero che Yeats si chiese a un certo punto se qualcuno dei suoi versi non avesse portato qualcuno a morte (per i temi che affrontava), ma direi che questa è l’eccezione. C’è forse un altro mezzo tramite il quale una qualunque civiltà ha detto di sé se non lasciando graffiti dei propri sogni e dei propri terrori?

Ciò che resta lo fondano i poeti. Troppa retorica? Poniamo allora qualche domanda che, al contrario, parli della poesia come potenziale forza civilizzatrice - senza entrare in gara con Sidney e Shelley... La poesia da sempre viene vista e spiegata in due modi: da una parte, possessione demonica (da Platone alla poesia romantica), cioè una parola che sgorga solo attraverso il poeta provenendo da un dio o dalla natura. Il poeta è uno sciamano, sulla scorta dei quattro poteri che Mircea Eliade attribuisce allo sciamano: ierofania (manifestare il sacro); capacità di vedere spiritualmente; capacità di parlare il linguaggio animale; capacità di parlare con gli spiriti. L’altra faccia è quella incentrata sulla techné del neoclassico, ma anche delle poetiche avanguardiste: un chimico del linguaggio, un abile manipolatore di tecniche retoriche, e via dicendo. Diciamo pure Apollodoro contro Longino, Orazio contro Coleridge eccetera... Da sempre la poesia vive di questa alternanza, e non è il caso di discuterne qui. Ricordiamo un verso di Pope: “What oft was thought, but ne’er so well express’d”. Minimalista ma chiaro... 

Il rapporto della società e del potere con un “indemoniato” è sempre teso, ma un manipolatore del linguaggio e delle coscienze è utilissimo, e questo ha di fatto garantito maggior prosperità: il chierico, l’intellettuale più o meno organico, trovano posto più facilmente nel meccanismo, almeno finché non stonano troppo. La conversione di Goethe è direi paradigmatica. Dopotutto, la società ha bisogno di manipolare dati e fatti: però le domande che si pone il poeta sono soprattutto etiche, a partire proprio dall’etica della (propria) scrittura. Il poeta rivendica, anche verso il principe, il diritto di non allinearsi e di convivere con le contraddizioni sia del reale che dell’essere uomo; non potrebbe far versi, altrimenti, e non per qualche misteriosa perdita dei poteri o ferita, bensì solo perché questa è l’essenza del fare poesia. È la fertile convivenza con le contraddizioni dell’essere umani, la mediazione con un territorio di confine fra le pretese verità scientifiche, forti, esatte e dure, delle scienze (quelle che il Novecento ha incrinato del tutto, ma non a livello operativo, vulgato). Memoria ed emozioni per controbilanciare la freddezza: Ermes - da cui ermetico, un aggettivo che bene si adatta a tutta la poesia - è dio dei confini, del passaggio, del ritorno, dell’unificazione...

È questo, incidentalmente, anche lo specifico della poesia nei confronti della prosa. Nel continuo restringersi del suo spazio, la poesia ha perduto buona parte dei propri domini, ma le resterà sempre quello di laboratorio linguistico e ideativo. Oggi, visto che comunque si sta parlando anche di temi, chi userebbe la poesia ad esempio per scrivere un trattato? Eppure è stato fatto, non dimentichiamolo, fino al Settecento: la poesia era il normale mezzo di espressione sia del primitivo che dell’uomo colto fino all’Età dei Lumi: possiamo leggere opere di pura filosofia (Parmenide), fisica (Lucrezio), di agricoltura (Virgilio), arte di amare (Ovidio), pesca, guide turistiche, critica letteraria (Orazio, Pope, Boileau), opere narrative o storiche (l’epica). Il tutto forse senza troppa “scientificità” – proprio quella però che il Novecento ha provato fallace... La poesia accoglie, più della prosa, la contraddizione – Niva Lorenzini parla di “interferenza”; la poesia rivendica i diritti dell’immaginare, cioè quell’atto senza il quale, ci insegna l’epistemologia, non esisterebbe neppure la pretesa verità scientifica: una verità scientifica che è tale perché falsificabile, mutevole nel tempo, frutto di un pre/giudizio iniziale ci dicono Popper, Feyerabend, Gadamer, Kuhn, Heisenberg, Schrödinger. Secondo Bigongiari “La poesia . . . rimette in equilibrio la pericolosa abitudine che avevamo preso con le cose.” Ecco che la poesia si associa alla Scienza invece di contrapporvisi, si avvicina al pensiero e lo rende vivo, fruibile.      Se poniamo la Poesia sull’altro piatto della bilancia, ecco la riparazione della poesia, nelle parole di Heaney, e la sua funzione riequilibratrice di un reale troppo difficile da reggere con lo sguardo. Oppure, più che a una riparazione di un danno esistente, o un medicamento, pensiamo all’utopia di una società sana che accolga la poesia non come uno svago (sostituto alle antiche “tecnologie del sé”), bensì come una normale e sana attività, che ha il compito di “preservare dalla ruggine i ferri del mestiere” (Pound) e di spingere sempre oltre i limiti del considerabile (Wittgenstein). Pound ha ragione: solo un linguaggio perfettamente lustro è in grado di reggere all’urto di significati estremi quali sono quelli delle scienze avanzate. Perché le scoperte vanno trascritte per esistere; anche perché noi siamo linguaggio, ci insegnano Gadamer e Lacan, e il linguaggio è la nostra dimensione, al di fuori della quale nulla è possibile: non il pensiero, non la comunicazione, non la vita.

Come riprova, non è forse vero che, seppur in modi diversi, fisici, psicanalisti, filosofi e poeti si trovano sempre più spesso (come un tempo) ad operare negli stessi territori speculativi? Non è forse vero che senza l’Amleto di Shakespeare e il Mosé di Michelangelo la psicanalisi sarebbe diversa? Che senza Hölderlin Heidegger non avrebbe trovato indispensabili punti d’appoggio per la propria speculazione? Insomma molta parte del pensiero “scientifico” va a braccetto con la poesia, perché filosofi, scienziati e poeti rappresentano lo stesso mondo, eternamente uguale ma sempre nuovo oggi giorno (“l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva...”)  

Come non renderci conto che ciò che fonda una civiltà, che cementa una civiltà, è la lettura (intesa in senso ampio, come ermeneutica) di tutti i testi che la compongono, e che è lì che si giocano i destini dell’uomo – sulla capacità di capire. Allora cerchiamo di vedere la poesia come una tradizione di testi in cui l’uomo ha cercato di dire le cose più fondanti, cercando per ciascuna il linguaggio più adeguato, perché altri confrontino le proprie capacità con quei testi, e vi giungano attraverso un proprio percorso di crescita. Perché la lettura consiste nel far risuonare una voce dentro di noi, accoglierla, farla nostra; mettersi nella disposizione di ascolto dell’altro, dopo avere accordato i nostri strumenti critici. Un “clavicembalo ben temperato”, dice Northrop Frye; e, detta così, questa è anche l’essenza della civiltà. Una società che sa leggere ha più anticorpi contro i mostri della ragione, non vi sono dubbi. Perché, per parafrasare il titolo di un noto libro di saggi di Cesare Viviani, la vita non è uno spettacolo da osservare e gustare, ma una serie di domande che esigono la nostra risposta - anche nel senso inglese di “response”.

Lanciamo una provocazione. Se la norma è il critico che, con strumenti affilati di tipo multiculturale, affronta un testo e ce lo spiega innanzi, perché non usare la poesia e l’arte come strumento per confermare, à rebours, le altrettanto opinabili (dice Popper) intuizioni dello scienziato? Siamo davvero sicuri che il verso libro sia una prova dell’indebolimento del pensiero formale e non viceversa? Che, se è possibile spiegare L’Infinito con la fisica attuale non sia altrettanto lecito e fertile spiegare questa come sviluppo della poesia leopardiana? Perché giungere a Merleu-Ponty attraverso I girasoli?

 

Il dissidio dei poeti, dicevo: io rappresento una generazione che non può pensare di affrontare in modo diretto la realtà, come negli anni del neorealismo e negli anni Sessanta; non sappiamo come sia possibile, ed è il discorso sui temi con cui avevo aperto; ma usciamo già da una stagione di riflusso, anni di gioco combinatorio, di morte dell’arte, di poesia incomunicabile e comunque incomprensibile. Molte delle soluzione che ci si prospettano portano in sé il rischio dell’eccesso, del manierismo, del minimalismo da “visione dell’ombelico”. Certo, ciò che conta è la marca espressiva personale e, fatto importante, quelle che sono in giro e vanno per la maggiore sono poetiche “deboli” senza linee dominanti, o all’opposto (ma è lo stesso) strampalate poetiche idiosincratiche. La responsabilità del singolo è enorme. È lui, solo come non mai, con una tradizione incerta e poche linee guida per l’oggi, a porsi di fronte alla Storia. Ed è una Storia che spaventa, che inventa mostri con più frequenza che mai, mostri che sono domande a cui dobbiamo trovare, sulla pagina, risposte espressive convincenti per il presente e che suonino tali per il futuro. Il futuro potrebbe accusarci di esserci baloccati con sogni e memorie mentre crollavano le mura.

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